Sara Pasian, ospite del cineforum "Io abito qui", ha raccontato la sua storia personale, la sua esperienza in India e il suo ritorno in Italia. Di seguito riportiamo il suo intervento
PRESENTAZIONE
Sono nata a Rovigo ed ho trascorso infanzia ed adolescenza a Polesella da cui sono, con la scusa dell’iscrizione all’università, scappata a gambe levate. All’epoca - avevo 18 anni - ero arrivata a detestare con una certa fermezza il mio territorio e condividevo questo sentimento con un considerevole numero di coetanei. Invidiavo non poco quelli che placidamente sceglievano la facoltà universitaria più vicina, si accontentavano di avere in comune con gli amici solo delle grandi bevute al bar e si aggrappavano alle comodità domestiche di famiglie protettive ed accoglienti, rispetto alle quali la mia rappresentava un’assoluta eccezione. Io non potevo sopportare né i bar, né le bevute, né tanto meno la famiglia, quindi non uscivo molto e se lo facevo era per scappare dal mio nucleo familiare. Tuttavia all’esterno non trovavo nulla di particolarmente coinvolgente e faticavo a crearmi delle valide alternative; del resto non avevo ancora gli strumenti per costruirmele.
L’unico ambiente per me interessante era quello del liceo scientifico che frequentavo e le poche migrazioni - detestando le vacanze con i genitori - avvenivano per le gite che fortunatamente la mia scuola organizzava annualmente. Credo di aver iniziato a coltivare la passione per il viaggio proprio in quelle occasioni. Non sapevo da che parte girarmi: in casa non riuscivo a starci e fuori era degrado assoluto; non esagero nel dire che ero depressa, patologia che ho potuto superare radicalmente e felicemente a partire dal mio trasferimento a Bologna per motivi universitari. Un modo efficace per riempire quel vuoto di esperienze e di cultura alla base della mia frustrazione durante gli anni giovanili.
Tuttavia quello sarà solo un passaggio; irruente, costruttivo, ma unicamente un passaggio. Dopo cinque anni di vita da studente/lavoratrice bolognese, vincendo un concorso bandito dal governo, sono partita alla volta dell’India, per un impiego all’Ambasciata italiana di New Delhi. Il programma prevedeva un soggiorno di tre mesi ma - vincendo altri concorsi - sono riuscita a prolungare le mie permanenza ed occupazione per tre anni complessivi, fino allo scorso novembre. Ho lavorato per l’ufficio politico, poi per la cooperazione internazionale, fino ad approdare all’ufficio consolare, dove ho avuto modo di adoperarmi nella mia mansione preferita: l’assistenza ai carcerati italiani in India. Un lavoro, quest’ultimo, che mi ha dato moltissimo sia dal punto di vista professionale che, soprattutto, da quello umano. Ero l’unica di tutto l’ufficio che dava sempre completa disponibilità ad assumere incarichi anche rischiosi. Lo facevo con gioia, perché tali incarichi mi davano la grande opportunità di viaggiare e conoscere la complessa realtà culturale e rurale indiana, mentre rimanendo nella capitale avevo modo di interfacciarmi più che altro con le complessità della megalopoli.
Portavo generi di conforto ai detenuti italiani, li visitavo nelle carceri e facevo da trait d’union tra la loro famiglia e gli avvocati. Alcuni sono individui innocenti e detenuti ingiustamente, di tutti ho avuto modo di raccogliere i racconti, che sono spesso storie - anche molto affascinanti - di ‘dissidenti esistenziali’ alla ricerca di un sentiero mistico-drogastico in India. In pratica una fuga dalla grigia e conformista realtà italiana, scovando nell’utilizzo di stupefacenti un’alternativa al vuoto di esperienze.
La meta finale nel cammino di queste persone è dunque un soggiorno carcerario di durata interminabile e condizioni disumane, considerata l’assenza di un trattato di estradizione tra il nostro paese e l’India. Sullo sfondo delle avventure di questi cittadini si colloca un’India dalla cultura antichissima, impregnata di una vera saggezza. Qualcosa di assolutamente non chimerico, come invece è ricercato da molti turisti e dai ‘dissidenti esistenziali’ di cui sopra, bensì una saggezza guidata perlopiù dal buon senso della gestione dei rapporti umani, della vita domestica e famigliare. Evito ovviamente di toccare gravi temi come la militarizzazione, l’inquinamento efferato etc., che certo allontanano dall’impressione di quella lunghissima stratificazione culturale indiana che invece si può riscontrare negli ambiti della vita domestico-quotidiana.
.VIAGGIARE PER IMPARARE AD AMARE LA PROPRIA TERRA.
Nella ricerca, anche sofferta, della difficile integrazione con gli autoctoni, ho avuto l’opportunità di imparare molte cose da un punto di vista antropologico; paradossalmente sono proprio molte di queste a permettere un riavvicinamento alla mia terra d’origine, pur continuando a vivere in Asia. Mi ero allontanata emotivamente dal Polesine e coltivavo unicamente soltanto alcuni rapporti affettivi, come quello con la mia famiglia e gli amici più intimi. Credo sia significativo di un certo rigetto il fatto che la sottoscritta non abbia mai parlato il proprio dialetto - fino al ritorno dall’India - e si sia al contrario dedicata per circa quindici anni all’apprendimento delle lingue straniere. Ora scrivo in dialetto anche gli sms e parlarlo con le amiche arricchisce l’atmosfera di una complicità affettiva. Quando ho iniziato ad avere un gruppo di amici indiani, costituito soprattutto da donne più anziane di me, ho automaticamente iniziato a paragonare i loro usi e costumi quotidiani e domestici a quelli ancestrali del mio luogo d’origine.
Quando Sharmila mi forniva le ricette delle zuppe del Kerala i cui ingredienti, puramente vegani, si potevano raccogliere in natura, io le raccontavo delle escursioni in golena sul Po a raccogliere carletti ed ortiche. Sono stata invitata da Anhu ad una Puja (preghiera), a cui partecipava tutta la popolazione femminile del vicinato. Ad un tratto queste donne in sari si sono messe ad intonare mantra induisti, decorando il suolo con figure disegnate allineando petali di garofani arancioni. In quella occasione ho ricordato una processione a cui partecipavo nel maggio di ogni anno con entrambe le mie nonne a Polesella. Un rito che vedeva le donne accompagnare la statua della Madonna del Rosario lungo le strade del paese, intonando ad ipnotica ripetizione il Rosario e spargendo a terra petali di fiori a copiose manate. Fiori che erano stati raccolti nei loro giardini.
Gli impacchi con l’olio, le maschere per capelli a base di uovo fatte con le amiche indiane ogni venerdì sera non sono dissimili da quelli che mia madre - giovanissima - faceva in casa con le amiche, coronando il tutto con una bella ceretta a vicenda, mentre il pentolino ribolliva di cera sul fornello.
A volte non c’è nulla di più esotico ed evasivo della nostra stessa memoria. Una maggiore aderenza al quotidiano, alla memoria storica - anche quella più vicina - aiuta a sopportare la ridondanza dei luoghi in cui siamo calati.
Il sentimento verso il mio paese d’origine è mutato di gran lunga in questi anni all’estero: vuoi a causa dell’età più matura o della nostalgia un po’ romantica che forse fisiologicamente sopraggiunge. Sta di fatto che viaggiare risulta per me irrinunciabile almeno quanto scoprire il diverso in termini generali; a ben vedere è banalmente vero che ciò mi possa conciliare con un luogo difficile come quello polesano. Per la sua provincialità non si può che detestarlo, per poi innamorarsene nuovamente quando la mente riesca a nobilitarne gli usi e costumi, esattamente come riesce a farlo con gli usi e costumi di nuove popolazioni ed etnie, che si incontrano nel proprio migrare.
Viaggiare, per quanto mi riguarda, aiuta l’integrazione. Non mi riferisco unicamente alla capacità di accettare e comprendere il diverso, ma ad un’integrazione che riguarda la possibilità - per me nient’affatto scontata - di apprezzare il territorio da cui vengo; le sue lingua, durezza, storia. Andare lontano non è una mera interruzione della routine scaturita dal vivere sempre nello stesso luogo, facendo del rilassante turismo che risolleva dalla noia. E’ qualcosa di più profondo e perdurante; nell’analisi disincantata del diverso capisco meglio me stessa ed imparo forse ad accettare maggiormente la mia natura e quella delle mie origini territoriali. Mi permette in sostanza di ri-ambientarmi con più facilità al mio ritorno.
Sara Pasian
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